Spigolatrice di Sapri, opera di Emanuele Stifano, 2021

«Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!’ ‘
Me ne andava al mattino a spigolare

quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore».

Sono alcuni dei versi della poesia La spigolatrice di Sapri, di Luigi Mercantini, che chiunque quasi certamente ricorda dal periodo scolare.

Era uno di quei componimenti che, all’epoca delle poesie imparate a memoria, diventavano veri e propri tormentoni, rimanendo in mente in eterno.

Non sempre era chiaro il loro vero intento: tutto era affidato alla voce di chi insegnava che, oltre a chiedere di imparare dei versi a memoria, non sempre era in grado di trasmettere anche il cuore del poeta e dei suoi versi.

Comunque sia, La spigolatrice di Sapri racconta della spedizione rivoluzionaria e antimonarchica di Pisacane, fallita miseramente.

In breve: la spedizione, in parte mazziniana, aveva lo scopo di liberare oltre trecento uomini dalla prigione di Ponza e al contempo agire con un’operazione di rivolta contro i Borboni, che all’epoca governavano nelle Due Sicilie.

Questi patrioti, che con il tricolore sbarcarono senza nuocere alla popolazione, o depredarla, vennero descritti dai regnanti come briganti, e attaccati dagli abitanti, armati proprio dalle guardie borboniche, che li attesero e li massacrarono.

I circa trecento superstiti vennero processati nel 1858. Tra questi, Giovanni Nicotera che successivamente verrà liberato da Garibaldi, diventando un politico nell’Italia unita.

Il componimento di Mercantini affida il suo intento nelle mani di una lavoratrice dei campi (una spigolatrice di grano) che osserva le gesta patriottiche dei rivoluzionari narrandone l’intento valoroso.

Se si leggono i versi di questa poesia, ci si accorge che la spigolatrice non è tanto una donna fisica, quanto l’animo di una donna, una voce pura di contadina che, romanticamente e con dolore, esprime il cuore di un’impresa patriottica.

«Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra».

La donna, dal suo osservatorio semplice di lavoratrice, descrive il sacrificio valoroso che un gruppo di uomini compie in nome dell’Italia unita e della libertà dal malgoverno della monarchia imperante.

Ne racconta l’alto intento, con la semplicità e l’ardore della sua giovinezza; con sincerità, osserva quell’intento e comprende che non vi è quello di nuocere agli abitanti.

E ancora narra il sacrificio e il valore che lo muove, descrivendo il volto, gli occhi, i capelli di uno di loro, come fossero tutti e insieme nessuno in particolare.

Quei versi in cui sembra rimpiangere un amore sono in realtà metaforici della giovinezza e del sacrificio di quelle vite:

«[…]io non vedea più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!»

Detto tutto ciò, ieri, a Sapri, è stata inaugurata una nuova statua in memoria di questa poesia.

È una statua dello scultore Emanuele Stifano e ritrae una giovane donna che più che una contadina simbolo del Risorgimento italiano sembra una Venere con le natiche rifatte.

L’autore dichiara che, se dovesse scolpirla di nuovo, la rifarebbe nuda.

Posto che il punto non è la nudità, che dagli antichi greci a oggi ha cambiato, non solo il diritto per il genere di essere ritratto senza veli, ma anche la condizione e il privilegio sociale, credo che l’arte su commissione pubblica dovrebbe tenere in conto del momento sociale in cui, pubblicamente appunto, si esprime.

Il momento, caro Stifano, è quello in cui è necessario un impegno comune per annientare il sessismo che, nel nostro Paese (e nel mondo in generale), è motivo di reiterata e quotidiana violenza sulle donne.

Se dicessi a Stifano cosa penso, lo inviterei a pensare a una contadina di metà Ottocento, alle forme di una donna che fatica nei campi.

Rendendomi conto, però, che non sia giusto entrare nella visione di un artista, soprattutto lo inviterei a creare una visione metaforica di quell’impresa.

Una visione metaforica così come lo è la poesia stessa di Mercantini, che, dalla voce di una spigolatrice di grano, racconta la morte di un gruppo valoroso di uomini.

Se la risposta al sacrificio raccontato con gli occhi di una giovane popolana sono le natiche di una velina, beh, qualcosa deve proprio essere andato storto.

Deve essere andato storto qualcosa anche paragonando l’idea della donna di un giovane artista come Stifano rispetto a quella di Gaetano Pesce che, a 81 anni di età, con le sue Up (opere d’arte concettuale https://www.isavona.com/arte-concettuale-e-pregiudizio/?fbclid=IwAR1BG81X-Q0gKr03W-oyqZYjeB8xwE5i14jexBxXr5T96AOiYSdt3v2Wn8Y), da decenni si impegna nel descrivere la condizione femminile con una profonda critica verso la società maschilista.

È alle donne che affiderei il compito di commissionare un’opera che, attenzione, non ha l’intento di stuzzicare la libido maschile e nutrire l’ego di un artista, ma quello pubblico della memoria a un simbolo storico.

Ma siamo in Italia, il Paese delle veline, delle professoressine, e di tutto quel retaggio maschilista che persino un giovane artista incarna… e con orgoglio!