Penso che esprimersi in modo misurato sia sinonimo di equilibrio e soprattutto di pazienza. Pazienza nell’attendere che il messaggio venga compreso, senza esagerare nell’esporlo.

Visto da un osservatorio comune, quello della conversazione, o comunque di un rapporto ordinario tra persone, il modo misurato di esporre i propri pensieri, dando alle cose la giusta denominazione e collocazione, dovrebbe essere il più utilizzato.

Ormai da qualche anno, e faccio fatica a ricordare cosa abbia causato questa necessità di enfatizzare anche cose di poco conto, le esagerazioni hanno invaso non solo il lessico, ma anche il senso delle cose.

Degli amori, delle amicizie, dei rapporti in genere, sono state dette e scritte cose senza un costrutto emotivo di spessore: sono tutti amici e innamorati, anche senza né storia né approfondimenti.

Ma oltre ad allargarsi a macchia d’olio nel lessico e nei presunti sentimenti e rapporti, le iperboli moderne hanno spodestato il valore di certi concetti, banalizzandoli.

E’ un po’ come nella globalizzazione dell’abbigliamento, dove gli indumenti che un tempo erano curati nelle cuciture e nei tessuti, oggi sono poco più che stracci sfilacciati e di pessima consistenza.

Così è stato per il senso di certi concetti che erano di uno spessore e poi si sono assottigliati, infilandosi ovunque, in qualunque contesto e discorso.

Ce ne sono molte di parole utilizzate ormai con estrema superficialità; banalizzate continuamente e addotte a situazioni ordinarie che non hanno motivo di esaltazione.

E non parlo dell’uso e del senso molteplice delle parole, ma piuttosto dell’appiattimento di valori che in quelle parole trovavano un compimento.

Tutto è cominciato con la bontà, lo ricordo. Con gli slogan che alle persone piaceva così tanto condividere sui social.

Erano slogan che recitavano frasi magari estrapolate da libri mai letti da chi le condivideva, o inventati per la situazione, che era quella di ostentare il proprio, presunto onore.

D’improvviso tutti erano buoni, troppo buoni per questo mondo.

“Troppo buono” divenne un modo per auto descriversi, per descrivere la banalità di un’etica nella norma, rappresentata da un valore mediocre e senza particolari guizzi morali.

La gente ha iniziato a sentirsi troppo buona per i motivi più inconsistenti, per una percezione esagerata di se stessa e del proprio apporto nelle relazioni.

Troppo buona perché normalmente corretta; troppo buona perché normalmente educata.

Tutto questo è passato inosservato, perché il periodo dei troppo buoni è coinciso con una tendenza sempre crescente del rumore; dell’esagerazione di ogni sentimento; della declamazione di ogni rapporto, attraverso immagini allegre di accozzaglie umane prive di fondamento.

Tutti amici!

Questa parola -AMICI- che è stata svuotata anch’essa di valore, anch’essa di storia e costrutto. E poi tutti innamorati, tutti uniti in rapporti che abbiamo visto sgretolarsi dopo essere stati enfatizzati sui social in maniera anomala.

Poi è arrivato l’oggi, questo traslitterare triste, la migrazione di termini che hanno racchiuso vessazioni sociali e lotte di secoli verso luoghi poveri di qualunque contenuto.

La parola MISERIA, che dovrebbe descrivere uno stato di seria indigenza, legata a beni di primissima sussistenza, viene utilizzata impropriamente, lo abbiamo visto recentemente.

Infatti, le molte immagini ritraenti gli assembramenti della movida dello scorso week end hanno messo in luce come la prima necessità, per molti sia rappresentata dall’aperitivo.

E c’è anche la parola ODIO, utilizzata prima per descrivere una prevaricazione sociale, un atteggiamento prepotente di grande impatto anche politico, viene deflorata della sua forza e relegata nelle azioni più inconsistenti.

Oggi ci sono nuove figure descritte dalla parola odio, ma diversamente da ieri, in cui descrivevano una controversia basata sulla sopravvivenza e sull’integrazione delle etnie e dei generi e sul rispetto delle differenze, oggi additano l’umana e legittima paura.

Oggi gli “odiatori” sono coloro denunciano l’irresponsabilità di chi non rispetta l’emergenza mondiale legata al Covid.

Oggi l’odio non è più quello per la fragilità, che è un odio secolare e spesso istituzionalizzato. Oggi è quello per la stupidità, per l’ignoranza. Oggi, il fastidio legittimo verso la sconsideratezza è definito ODIO.

Eppure, lo vorrei ricordare per chi quotidianamente spende questa parola con tanta superficialità, odiare non è additare chi vive costantemente nell’irresponsabilità e indifferenza verso la situazione e le morti copiose che ci sono state; odiare significa infierire su chi è fragile.

Ma c’è un’altra parola utilizzata spesso impropriamente, impropriamente sia per il suo significato letterale che per il senso che in essa è storicamente contenuto, ed è libertà.

Hanno iniziato gli antivaccinisti, rivendicando, invece che la propria ignoranza, la libertà di essere ignoranti e coesistere con gli altri rischiando di pregiudicarne la salute.

Quando la libertà è per troppa gente la possibilità di contravvenire all’intelligenza comune, è un bel problema, non solamente di contenuti ma anche di conseguenze.

Esattamente come chi, inneggiando al Fascismo, rivendica il proprio diritto all’opinione resuscitando ciò che è stato la morte di tutte le opinioni.

Oggi libertà è per tanti quella di vivere a spregio delle misure dei Decreti sulla sicurezza. Vivere soggettivamente una questione che non è possibile isolare se non attraverso una visione plurale del problema.

Oggi il termine libertà viene mortificato per rivendicare il diritto alla propria stupidità e credo che questo sia proprio significativo di quanto esprimersi in modo misurato sia ormai solamente il miraggio di una saggezza dimenticata.

Patrizia Ciribè