69720584_2455926801109290_1566850150284918784_n Fotografia di @Monica Spoti

Sembra strano, ma in pochi ci pensano che a nutrire il mostro con il suo cibo quotidiano, a preparargli un ambiente confortevole fatto di pensieri pretestuosi, e parole sbagliate, quello poi agisce pensando di averne il diritto.

Pochi, troppo pochi, pensano che le parole abbiano un peso, che ogni persona porti con sé anche gli errori altrui, errori che si sono riversati nel suo bagaglio a suon di affermazioni e sentito dire.

Ed è così che cresciamo, convinti che il mondo sia fatto di quelle cose che abbiamo imparato; che quelle cose lo compongano inevitabilmente. E allo stesso modo perpetriamo quei convincimenti ritenendoli inequivocabilmente giusti e persino ritenendoli valori morali.

La realtà attuale ci appare sempre come una dimensione aliena, fondata su una superficialità nuova e non, invece, come sarebbe giusto, come il retaggio di quello ieri che tanto viene decantato dai depositari dei ricordi distorti. Che lo ieri, esattamente come l’oggi, è costellato di vessazioni drammatiche, di violenze inaudite. Ma sono molte le persone che non evolvono, né nel linguaggio né nel pensiero, convinte di aver acquisito chissà quali insegnamenti.

Che le donne erano schiave, in quei bei tempi tanto decantati; che la gente era schiava, di pensieri e padroni, di ricchi e potenti, delle religioni e di una morale barbara che della donna ha fatto sempre il suo bersaglio preferito.

E oggi, ancora, sentiamo parlare di quei valori, quelli che vogliono la donna seria, che la donna seria è colei che si assoggetta a un pensiero, che quel pensiero è quello che la vuole santa, indipendente in quel piccolo margine di tolleranza che come una ferita si richiude a vista d’occhio e ogni volta bisogna cadere di nuovo per poterla riaprire.

Lo dico qui, in questo spazio di cui sono ospite ma che, forse, un po’ mi appartiene: sono così stanca di vedere le donne che vanno contro loro stesse; che pur di difendere la propria progenie, o quella che rappresenta il proprio operato come madri, gettano la scure sul genere cui appartengono. Che tramandano ancora quel retaggio, retaggio che, sulla divisione fra sante e puttane, ha cresciuto generazioni di maschi alfa. Sono stanca di vederle produrre attenuanti che non fanno altro se non svilire i reati di violenza, abuso e uccisione.

Ogni giorno assistiamo a uno svilimento costante della verità, quando la verità è uno stupro, un abuso, un omicidio, e il colpevole è qualcuno che in qualche modo viene compreso, stigmatizzato il suo gesto, ma compreso il pretesto su cui si è fondato quel reato.

E la colpa è in buona parte di un linguaggio che, così come il pensiero, non si è evoluto come avrebbe dovuto fare. Quando ero ragazzina, era normale usare termini quale “mongoloide, andicappato, ritardato” per definire certe condizioni umane sregolate da disabilità intellettive più o meno incidenti. Era normale, ed è ancora normale in alcune famiglie, definire qualcuno denigrandolo. Se andiamo ancora più indietro, era normale chiamare “serva” l’aiuto domestico; chiamare “vecchio” l’anziano; chiamare “negro” il nero. E lo era per una forma di inciviltà, per certi versi involontaria, che trascinava una brutta eredità fatta di parole sbagliate.

Il linguaggio evolve, per fortuna; non abbastanza, ma evolve, e lo fa condizionando anche il pensiero. Lo fa condizionando l’educazione, affinando la mentalità, innalzando il valore e il peso che le parole hanno. Ma non abbiamo mai smesso di chiamare puttana la donna, sia nelle azioni che, per costume e bigotteria, sono ancora legate alla morale, che su quelle quotidiane che la vedono attrice di gesti sbagliati.

Sempre più penso che in un mondo adeguatamente civile dovrebbero riprodursi coloro abbiano consapevolezza del linguaggio, capacità di apprendere le necessità della sua evoluzione e abbiano la propensione a insegnarla. Poi mi rendo conto che sono le nuove generazioni a evolvere, anche prescindendo dalle proprie origini, spesso stagnando in quelle origini, ma talvolta liberandosi di un brutto retaggio. Ed è per questo che sentire donne, madri, che sembrano tentare con ogni mezzo di impedire ai propri figli quella catarsi mi fa arrabbiare moltissimo.

Finché le donne, per prime, non capiranno che certe affermazioni si insinuano nella mentalità, che si tramandano con le nuove generazioni, e che lo fanno subdolamente, tramite frasi meschine e ordinarie che sviliscono la libertà personale, non ci sarà guarigione. Guarigione per una malattia che ha una sola causa: la mentalità maschilista che, celata nei valori antichi così tanto decantati da quelle madri onorevoli, si ciba della complicità proprio di chi genera la vita.

Patrizia Ciribè