Donna accucciata (1884–85),

Il pezzo di oggi lo voglio dedicare a una grande artista che, quando studiavo storia dell’arte, mi appassionò molto.

Oggi sono parecchie le figure femminili che diventano icone, un po’ per moda un po’ per emulazione, ma spesso senza che alla base vi sia una vera conoscenza delle stesse.

Si tende a identificare le donne che hanno ispirato il femminismo nelle voci più alte, nelle gesta più note, nei colori più forti.

Si tende a pensare che, nella rivendicazione dei diritti, vi sia una sorta di violenza e disamore per la tradizione.

Nella comune mentalità, è come se la ricerca di un innocuo senso di giustizia, immediatamente, fosse un attacco ai privilegi altrui.

Proprio questo è il retaggio di quelle violenze, anche silenziose, che molte donne, che non si sono allineate agli stereotipi sociali, hanno subito nella storia.

Ma partiamo dal principio: chi era Camille Claudel?

Era un’artista, una scultrice di grande talento forse più nota per essere stata l’amante del “collega” Rodin e amica intima del compositore Debussy che per le meravigliose opere d’arte che ha lasciato.

Era una donna nata nell’Ottocento che, proprio a causa del suo discostarsi dalla mentalità dell’epoca, morì di stenti in manicomio.

Mi identifico sempre con queste figure femminili, con la loro voce interiore che le ha spinte a cercare altrove il proprio compimento.

Non solo, mi identifico e mi vedo al loro posto, consapevole che quella sorte un po’ mi appartiene.

Mi appartiene per un senso di continuità, ma soprattutto di casualità che ha permesso che io nascessi in un’epoca in cui, al limite, puoi ricevere qualche domanda fastidiosa.

In cui, al limite, se proprio qualcuno non riesce a trattenere la curiosità, ti chiederà come mai non hai avuto dei figli; come mai sei come sei e fai ciò che fai.

La sua sorte è la mia e quella di tutte quelle donne a cui la società, anche oggi, chiede una spiegazione.

Ma un tempo, di certo, le domande non erano sufficienti per trasferire il disagio di chi non accetta l’alternatività delle scelte; un tempo, se non ti allineavi a un comune senso di maternità e appartenenza patriarcale, la tua sorte poteva tranquillamente essere quella della povera Camille.

Scriveva: “Mi si rimprovera (crimine orribile!) di aver vissuto da sola, di avere dei gatti in casa, di soffrire di manie di persecuzione! È sulla base di queste accuse che sono incarcerata da cinque anni e mezzo come una criminale, privata della libertà, privata del cibo, del fuoco e dei più elementari conforti”.

L’Âge Mûr, 1902

L’Âge Mûr, che risale al periodo precedente al suo internamento coatto da parte della sua famiglia, ci parla di destino, forse è un’interpretazione autobiografica e simbolica che medita sulle relazioni umane.

L’uomo, ancora saldamente tenuto dalla giovinezza e dalla vita, viene strappato, a un giovane abbraccio supplicante, dalla vecchiaia e dalla morte.

Camille Claudel era una donna troppo moderna, di un senso di modernità sottile, dignitoso, ricercato nella propria personale visione più che in eclatanti rimostranze.

Ma anche l’arte, il profilo fragile e delicato che ha indotto molto uomini alla follia, era un privilegio maschile. Persino la follia lo era, persino se la follia era solamente scelta e non effettivo disagio.

I trent’anni di internamento di Cammile, e la sua morte, ci ricordano quanto la modernità non sia solo novità, ma sia soprattutto il reiterarsi della rivendicazione di ciò che ciclicamente ha la necessità di essere ribadito.

Circa trent’anni dopo l’internamento di Camille Claudel, da un’altra parte del mondo, sparisce una Kennedy, quasi nello stesso modo.

La sorella del più famoso John viene lobotomizzata, ridotta a un vegetale, perché considerata pericolosa per il buon nome della famiglia.

Ma di questa donna voglio parlarvi in un altro pezzo. Prossimamente, ne La Pat zone.

Patrizia Ciribè