Di come la vita passa su questa terra senza che abbia un senso universale; senza che per ognuno di noi sia determinante, allo stesso modo, il fatto che tutti percepiscano gli stessi desideri, mi rammarico ogni giorno.

Di come si possano dire e ascoltare frasi come “oggi soltanto otto morti” senza che questo suoni stonato, drammatico, inascoltabile, mi rammarico ogni giorno.

Di come ogni ingiustizia finisca per essere una crociata per qualcuno e un fastidioso intercalare nella quotidianità di qualcun altro, mi rammarico ogni giorno.

Mi rammarico, cioè, dell’inadempienza di troppe coscienze che sono svuotate e riempite di emozioni posticce, che nulla hanno a che fare con l’antica consistenza di un accettabile concetto di anima.

La sensazione, dopo tutti questi mesi così difficili, fatti di ostacoli nuovi e per certi versi invalicabili, è che ci sia una massa da soddisfare con un po’ di divertimento.

Come se ci si potesse distrarre davvero dal fatto che ogni giorno, innaturalmente, come il cucù di un vecchio orologio, l’annuncio di qualcuno che muore è diventato un suono coperto dall’abitudine e dalla noncuranza.

Un uccellino di legno che esce fuori tra i rumori della vita e di cui nessuno si meraviglia più. Eppure c’è stato un momento in cui persino quel piccolo meccanismo destava stupore.

C’è stato un momento in cui eravamo una specie così ingenua e pulita, che era facile stupirsi di ogni suono e dare il giusto peso alla morte.

C’era, io credo, quel momento in cui la necessità dell’individuo non era quella di fare finta di nulla; che continuare con la propria vita non significava unicamente continuare a non dare peso alla morte.

Io credo ci fosse un tempo, non lontano, in cui la tragedia suonava un silenzio assordante; in cui un orologio a cucù stupiva uomini e bambini allo stesso modo.

 

Ho un orologio a parete, in cucina, che in ogni ora suona il verso di un uccellino.

Mi è capitato di vederlo nella cucina di una signora che ho conosciuto per lavoro, e che tra mille volti della mia vita pareva sempre lo stesso incurante; lo stesso che ti chiede informazioni e lascia che tu dica cose di cui in fondo poco le importa.

Ho alzato la testa e ho visto quell’orologio, uguale al mio, e non ho potuto fare a meno di dire che era lo stesso.

Che suona a basso volume quand’è buio, per non disturbare il sonno di chi dorme, e che fa i suoni più belli nei momenti in cui la domenica preparo il pranzo.

Ho visto sul viso della signora un’espressione nuova, come se si fosse animata di interesse e curiosità.

Ho visto l’umanità uscire fuori, mentre parlavo di un orologio a parete e di quel suo meccanismo che scandisce romanticamente il tempo in attesa che qualcuno se ne accorga.

E ho pensato al pendolo di mia nonna Maria che oscillava scandendo la vita di una casa grande e sola, avviandosi verso la chiusura e la morte.

Riconosco quel suono in quelle vecchie carcasse che di tanto in tanto mi capita di trovare in qualche casa.

Carcasse che mi ricordano di come le persone avessero bisogno di sapere che il tempo passava e che l’inesorabile era qualcosa da segnalare, da ricordare, da attendere, anche.

Ricordarsi che la vita passa con l’oscillazione perenne di un pendolo, con il suono drammatico delle ore, era forse il modo che la gente aveva per ricordarsi che non siamo immortali. Per dare peso alla morte.

“L’età della tragedia può aver fine solo con una rivolta della frivolezza”, ha scritto Milan Kundera. E probabilmente è questo il costante tentativo dell’uomo, quello cioè di distrarsi a ogni costo dimenticando la tragedia della morte.

Patrizia Ciribè