“Non sempre la misoginia è indizio di spirito critico e di intelligenza. Talvolta è solo il frutto dell’omosessualità”. Questo pensiero appartiene a Marcel Proust ed è contenuto nel secondo volume della sua opera più importante, Alla ricerca del tempo perduto (1922).

Credo che, tratto da un contesto letterario che ha quasi cent’anni di età, per quanto ovviamente discutibile la prima frase del periodo, in esso vi sia racchiuso un pensiero condivisibile e anche estendibile all’omofobia.

Non solo la misoginia ha radici poco chiare che si fondano su un odio represso, ma anche l’omofobia, allo stesso modo, è il risultato di una distorsione interiore molto profonda.

Ogni forma d’odio nasce da una paura incontrollata; ogni paura per ciò che è esterno a noi si fonda sulla paura di qualcosa che in realtà ci appartiene.

Tutti i conflitti costanti che contraddistinguono la nostra società, e ai quali è necessario dare sempre una rilevanza politica, non sono altro che la proiezione di una banale fobia.

La paura, cioè, non solo di ciò che non conosciamo, ma soprattutto di ciò che non vogliamo conoscere di noi stessi in quanto esseri umani.

Non so cosa vi sia di così attraente nel vivere nell’idea di noi stessi, invece che nella realtà di ciò che siamo.

Non so cosa spinga, anche parte delle nuove generazioni, a rigettare la propria natura salvo poi porla come giustificazione per le azioni peggiori.

Quel che è certo è che la violenza generata dall’odio per la natura umana e le sue sfaccettature è qualcosa che ha a che fare con la mentalità, ma soprattutto con l’educazione.

Si crede che essere genitori sia qualcosa per cui ci si possa arrangiare; una specie di lavoro generico nel quale sia possibile riciclarsi quando non si trovino alternative.

So che questa è un’affermazione forte, certamente impopolare, ma sono convinta che la mentalità possa migliorare solamente se chi decide di trovarsi nella posizione di educatore sia in grado di educare.

L’educazione all’odio per la natura umana è il modo con cui certa genitorialità, e certa politica, ricicla lo stesso male, generazione dopo generazione.

E per abbellire l’aberrazione del pregiudizio si ricorre quasi sempre a una finta educazione al rispetto, dove termini come tolleranza e accettazione vengono spesi come fossero positivi; emblematici di civiltà e non, com’è davvero, di condiscendenza.

Nell’immaginario comune, si crede che accettazione sia sinonimo di umanità; che la bontà sia il modo con cui ci si atteggia per apparire migliori.

In quell’insieme di termini fintamente educati si cerca il modo per sembrare civili. E il risultato è che ragazzini giovanissimi, che vivono in un momento cruciale per la lotta contro le discriminazioni, si sentono in diritto di aggredire una coppia gay “colpevole” di essere tale.

Ma all’indomani di certi episodi, che non sono purtroppo isolati, ciò che si tenta di fare è discolparsi. Discolparsi come politici, come genitori, come educatori.

Ma se la colpa non è di nessuno; se sette ragazzini sono gli unici responsabili di una violenza ingiustificata e inaudita; se il loro contesto familiare e sociale non ha colpa di quelle azioni, allora qualcuno sta affermando che è su di loro che è necessario agire.

Ma io credo fermamente che in certe famiglie vi sia ancora un lessico sbagliato; che nei dialoghi interni al più piccolo nucleo sociale, si usino espressioni e concetti pregni di inciviltà e, soprattutto, razzismo.

Credo fermamente che a casa, molti di coloro hanno scelto di riprodursi pensando di avere cose da insegnare, in realtà debbano imparare ancora tutto su come si debba essere per potersi considerare umani.

Laddove siamo fortunati, i più giovani stanno insegnando ai propri genitori come essere civili. Li stanno educando al rispetto per l’ambiente; per il genere; per l’etnia.

Lo stanno facendo perché inseriti in un buon contesto scolastico, perché contraddistinti da una buona consistenza caratteriale.

Ancora, siamo fortunati dove genitori e figli siano cresciuti insieme, si siano evoluti con il tempo, abbracciando il valore della differenza e il rispetto per la stessa.

Siamo fortunati se c’è impegno; se la gente che oggi ha la mia età è ancora in grado di cambiare linguaggio. Se comprende il valore delle parole da utilizzare, per evolvere nel dialogo e, di conseguenza, nella mentalità.

Ma non si può affidare alla fortuna la mentalità. La mentalità necessita di un lavoro costante che è primario solo per alcuni. E questo, ahimè, è il risultato.

Patrizia Ciribè