Mi domando spesso, in varie occasioni, cosa penserebbero le vittime dell’incuria di Governi e Istituzioni di tutte quelle passerelle che si susseguono dopo la tragedia che li ha coinvolti.

Della strumentalizzazione di quello che d’un tratto pare come un sacrificio sociale, un po’ come quando i popoli decidevano di immolare qualcuno sull’altare degli dei pagani.

Come se fosse automatico che qualcuno dovesse espiare le colpe di qualcun altro; come se in questo non vi fosse arroganza, cioè nel decidere che quella morte sia tutto sommato necessaria.

Ma ogni epoca ha i suoi assurdi equilibri, che finiscono per raccogliere una rassegnazione divenuta, nel frattempo, normalità.

Inizialmente un breve scoramento, poi la ricerca delle responsabilità -che sfociano sempre in un nulla di fatto- e infine tanto spazio per la politica e, soprattutto, per la sponsorizzazione del proprio schieramento.

Di come siano stati bravi questo e quello, tutti presi a rivendicare i propri meriti, si fa un grande sfoggio, ovviamente. Ma mai che qualcuno si prenda anche una colpa, una piccola, che so, “sapevamo e abbiamo taciuto; vedevamo e ci siamo voltati dall’altra parte”.

No, solo meriti, anche rivendicati per lo stesso evento, che d’un tratto, siccome, una volta tanto, testimonia un minimo sindacale di efficienza, diventa il trofeo di tutti.

Chissà se potessero parlare cosa direbbero. Chissà cosa penserebbero di tutti i proclami che si sono susseguiti; della patata bollente che passava di mano in mano, senza mai che qualcuno si scusasse; che uno di questi bravi padri di famiglia si cospargesse il capo di cenere, mostrando un po’ di umiltà.

Chissà perché la politica è così immune ai sensi di colpa, eppure l’uomo fustiga e vessa se stesso dall’avvento delle religioni, ma da esse impara solo quello che conviene.

Con esse va a braccetto solamente quando si tratta di limitare le potenzialità della libertà individuale.

E la convenienza, persino quando qualcuno ha pagato con la vita, è sempre volta alla rinascita e alla comune dimenticanza.

L’assenza di memoria, nella nostra epoca, è un grave problema.

Ogni azione è atta a cancellare gli antefatti, e anche quella che dovrebbe sempre essere la commemorazione di quarantatré morti diventa festeggiamento.

Si festeggia la rinascita, che tutto sommato è il colpo di spugna con cui i colpevoli cercano di cancellare i propri misfatti.

Se dovessi dare un incipit a un libro che parli di questo, scriverei:

Al momento di dividere le colpe, non c’era nessuno. Quando è arrivato quello dei meriti, il podio non era abbastanza grande per tutti.

 Ed è così che si festeggia come straordinario qualcosa che dovrebbe, in un mondo giusto, rappresentare la normalità.

Si festeggia qualcosa che se fosse stato come avrebbe dovuto non sarebbe costato la vita a quarantatré persone, e la serenità alle loro famiglie.

Io che attingo da quel serbatoio di utopie che consola noi autori per la brutalità sociale che ci impegniamo a raccontare, avrei voluto solamente tanto silenzio. Operosità e silenzio.

Ho immaginato una commemorazione vera, con un luttuoso abbraccio a chi davvero ha pianto, e piange, qualcuno.

Ho immaginato la disperazione dei colpevoli, la loro vita trasformata in tragedia, in espiazione, nella costante ricerca di una catarsi.

Ho immaginato uomini lacerati dal peso di una colpa indubbia, che rimanessero in silenzio, lontani dai proclami, smarriti perché d’un tratto consci della loro inettitudine.

Ho immaginato che non vi fossero parole, che non vi fosse musica, che vi fosse solo un unico movimento, quello operoso di chi domanda scusa, di chi spera di essere perdonato. E una corsa a risarcire, a consolare, con le ginocchia lacere e il viso che cerca a terra qualche parola da dire.

E invece no.

Purtroppo, di tutte le parole che ho sentito, non ve n’è stata una degna di essere ripetuta. Me ne sarebbe bastata una solamente e, in questa vuotezza generale, l’avrei certamente riconosciuta.

Patrizia Ciribè