Il momento dei bilanci è sempre dipendente da un periodo in particolare: la fine di qualcosa, un cambiamento, una lunga inattività, come nel caso della quarantena appena trascorsa.

Sono molti gli stati d’animo che ognuno di noi ha vissuto; a volte sono coincisi con quelli di chi abbiamo vicino, altre volte sono stati vissuti individualmente e silenziosamente.

Credo che molte persone poco abituate a fare bilanci, o anche solamente a interrogarsi su se stessi, siano state spinte, loro malgrado, verso questa pratica di autoanalisi. E forse, non essendo abituate a varcare la soglia di una dimensione meno basata sul lato pratico della vita, si sono sentite destabilizzate.

Sono state certamente molte anche le coppie che, vivendo insieme solamente perché la reciproca compagnia è limitata dal lavoro, dallo sport e da altri diversivi, trovandosi a condividere molto tempo, hanno preso coscienza di un rapporto al capolinea, o comunque assai più logorato di ciò che inconsciamente pensavano.

E anche il ritorno al lavoro -qualcosa che assorbe tanto del nostro tempo pratico e mentale, oltre a vivere nei nostri pensieri involontariamente-, ha certamente messo a nudo la vera sostanza di molte delle insoddisfazioni a esso legate.

La quarantena è stato un lungo periodo di inattività certamente anomalo. Infatti, se pensiamo per esempio a una vacanza, o a un periodo di aspettativa, ci rendiamo conto che in questi casi è prevista una distrazione che riduce l’assiduità tra individui dello stesso nucleo e aumenta notevolmente la possibilità di una distrazione. Una distrazione anche da noi stessi, che ci porta a trovare continue gratificazioni legate alla possibilità di una costante evasione.

Il livello di ricreazione nei lunghi periodi di inattività comune, lontani dal lavoro, è altissimo. Inoltre, portare parte delle proprie abitudini all’interno di una vacanza è senz’altro un modo per continuare a essere se stessi, nel bene e nel male.

Ma la quarantena ha cambiato tutto questo e lo ha fatto soprattutto per quelle persone che generalmente fanno pochi bilanci e che, se li fanno, li legano a traguardi esterni e quasi mai all’interiorità e agli affetti.

Penso che proprio quelle persone iperattive, e abituate a procedere nella vita sposando anche obiettivi non così desiderati o ponderati, si siano trovate in forte difficoltà. Che davanti alla necessità di una presa di coscienza riguardo a infelicità che non sapevano essere così ingombranti, abbiano alla fine messo molte cose in discussione.

Ma per discutere di noi stessi con noi stessi ci vuole molto coraggio e anche una profondità che necessita di un allenamento costante.

La vita in casa, quando ti è preclusa una via di uscita da ciò che tolleri solamente perché puoi continuamente evitarlo, diventa un contenitore pieno di tutto. E quando quel tutto è impossibile da evitare, allora puoi solamente viverlo e vivere te stesso, finalmente con coscienza.

L’anomalia di questa situazione individuale è che individuale non era; che questa presa di coscienza è coincisa con molte altre, che, in positivo o in negativo, hanno vissuto le stesse cose.

Per chi, come me, ama andare a caccia di emozioni umane, è stato facile percepire questo momento anche solamente camminando per strada. Ma pur non essendo pessimista per natura, credo che questo spiraglio individuale, ma anche sociale, dopo pochi giorni si stia già richiudendo.

Per tanti la vita interiore è una linea retta; in tanti rigettano il cambiamento, la discussione di qualcosa, la rottura di falsi equilibri. E questo atteggiamento rassicurante per molti, che alla fine costringe la massa nell’infelicità, è qualcosa che prende piede nella società rendendola incapace di interrogarsi.

Ci si interroga poco, e questo fa crescere anche il desiderio di una distrazione leggera, leggera in senso negativo.

Sono stata colpita per come, tra le prime necessità registrate dai media in tema di “riapertura alla vita”, l’aperitivo sia stato in pole position. Che, direte voi, c’era la voglia di socializzare, ma io credo che, a meno che non si viva da soli (che comunque il dialogo con noi stessi non andrebbe escluso a priori), si possa socializzare anche con i propri aventi causa; che si debba farlo se si vuole conoscere e apprezzare chi si ha vicino.

Ora, forse sono anche un po’ misantropa, lo ammetto, ma per quanto ami anch’io la possibilità di un aperitivo con gli amici, devo anche dire che talvolta trovo in esso il limite proprio nell’esiguità dell’approfondimento. Nella limitatezza con cui le conversazioni si infrangono costantemente girando attorno all’esistenza interiore, e quasi mai affrontandola veramente, trovo l’impossibilità di una reale conoscenza.

Questo approccio alla vita diventa il metro per gran parte delle attività più diffuse, dettando il livello di ogni forma espressiva.

Spesso mi imbatto in commenti ai miei articoli e mi rendo conto che chi li ha espressi lo ha fatto leggendo solamente il titolo. Qualcuno potrebbe dire che magari i miei articoli non sono così interessanti, e ciò può senz’altro essere vero; ma si dà il caso che rilevi questo atteggiamento anche innanzi a letture ben più forbite e stimolanti.

Questo fatto è in realtà molto esauriente in merito a come molti di noi conducono le proprie esistenze; a come troppo si trascurino gli approfondimenti, e lo si faccia all’interno del proprio nucleo con una disinvoltura paurosa.

Allora mi sono chiesta: perché il momento dei bilanci è così temuto? E mi sono risposta che è temuto perché è un limbo. E nel limbo si sta appesi, si guarda solo al momento, né avanti né indietro. Non ci sono i progetti a distrarci, i ricordi perdono parte della loro efficacia; ci siamo solamente noi con la nostra composizione spirituale, che si trova a contatto con quella di chi, nel bene e nel male, divide con noi la vita.

Il vero bilancio è quello che arriva da sé, e credo che mai come in questo momento molti ne siano stati travolti loro malgrado.

Patrizia Ciribè