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Oggi, a Genova, si è posata l’ultima parte d’acciaio del nuovo viadotto sul Valpolcevera.

La cerimonia, molto limitata a causa dell’emergenza Covid-19, ha comunque visto la presenza delle maggiori Istituzioni.

L’ultima parte in acciaio è stata posata e al contempo festeggiata tra le sirene, del cantiere e delle navi; una riunione commovente delle due sponde rimaste a lungo slegate.

Come tutti ricordiamo, il Ponte Morandi era crollato il 14 agosto del 2018, improvvisamente.

La tragedia, che ha causato 43 vittime, mise in risalto un problema latente, quello delle condizioni dei viadotti sulle autostrade italiane. La questione, in seconda battuta, diede il là a una lunga catena di scarica barili in cui ognuna delle parti interessate cominciò a rimbalzare la responsabilità dell’accaduto di qua e di là. E ancora rimbalza.

Non solo, si scatenò anche la necessità di abbandonare gli alloggi dei palazzi incidenti la zona interessata, con la successiva emergenza di quelle famiglie improvvisamente trovatesi senza dimora.

Mesi difficili, tra un fatto traumatico per tutta la città e un senso di disorientamento -non ancora del tutto passato per quanto mi riguarda-, ogni volta che ci si trovi a passare su un qualche viadotto autostradale.

Ma oggi, dopo nemmeno due anni, il viadotto, nella sua parte in acciaio, è terminato e prossimo alla apertura. Il tempo impiegato, in considerazione delle tempistiche cui siamo abituati nell’edilizia, come in ogni questione che si trovi incagliata nella burocrazia, è senz’altro degno di nota.

Tanto che il Premier Conte ha posto Genova come “un modello per l’Italia”.

Ma la frase che più ho apprezzato è stata quella dell’Architetto Renzo Piano, che ha ideato il progetto del viadotto donandolo alla città.

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Renzo Piano ha detto: “Non è un miracolo, ma la normalità. Quando la gente è competente le cose si fanno. E l’Italia è piena di persone competenti”.

In questa frase sono contenute molte cose: fiducia, soddisfazione, speranza per il futuro e anche denuncia.

C’era l’esigenza di dare un segnale positivo, c’era per molti motivi in una Regione ferita, spogliata di molte cose e da molti anni, una su tutte le prospettive lavorative, il futuro. E come ogni volta che si dimostra di fare qualcosa di positivo, lo si vorrebbe anche annoverare tra i fatti straordinari, invece di sottolineare la normalità dell’efficienza e l’anormalità dell’inoperosità che disabilita il nostro Paese.

Ho letto le parole di Piano e ho pensato che debbano far riflettere; festeggiare, sì, ma riflettere sulla normalità che dovrebbe coincidere con efficacia, non con decadenza.

Siamo talmente abituati a veder passare i nostri anni in attesa che ciò di cui abbiamo bisogno (e per la cui esistenza paghiamo costantemente) venga realizzato e mantenuto decentemente, che normalità, per noi, è straordinario.

E sono grata a Piano che, da uomo intelligente, invece che lasciare facile spazio alle esaltazioni ha sottolineato che oggi si festeggia la normalità di una struttura che, se affidata con raziocinio, senza le mangiatoie cui siamo abituati, ha visto i suoi natali in tempi normali.

Oggi festeggiamo la normalità, la cui assenza è costata la vita a 43 persone e che se fosse stata tale anche prima di quel giorno non avrebbe visto questo sacrificio.

Perché lo sembra, un sacrificio, per ricordare come dovrebbe essere la vita pubblica per funzionare degnamente. Nulla di straordinario, solo normalità: di tempi, di risorse, di impegno.

Perché alla fine di tutto questo spero che qualcuno si ricordi che l’Italia è piena di viadotti corrosi dal tempo; di edifici, strutture pericolanti che avrebbero la necessità di quella stessa normalità che ha permesso di costruire un ponte in due anni.

Normalità, niente di più.

Patrizia Ciribè