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Ci sono due modi opposti per affrontare la stessa cosa, a qualsiasi età. Davanti all’inevitabile, puoi comportarti da adulto o da bambino, a prescindere da quanti anni tu abbia.
Puoi fare quello che devi senza lamentarti continuamente, come dovrebbe fare un adulto; oppure fare quello che farai comunque, e lagnarti a ogni passo.

Il problema è che il concetto di inesorabilità, che non dovrebbe lasciare spazio a interpretazioni ma solamente a un’accettazione saggia di ciò che è, non trova più riscontro nel mondo attuale.

Siamo così convinti di poter cambiare ogni cosa, fatta salva l’evoluzione della propria mentalità, che applichiamo questo concetto alle cose sbagliate.

Invece, talvolta, arrendersi è l’unica cosa da fare: arrendersi a cose su cui non abbiamo né controllo né potere decisionale, ma solo la possibilità di accettarle, può essere liberatorio.

Che poi è strano il fatto che in tanti abbiano questa volontà di accanirsi pur senza un costrutto, accanirsi solamente perché ci si annoia, perché si vorrebbero altre cose, perché si pensa di saperne di più. È strano perché quando è possibile cambiare davvero; quando pensare è necessario, quando siamo nella condizione oggettiva di modificare ciò che siamo in meglio, ai più, pare una missione impossibile.

Vorrei per esempio sapere quanta gente, in questo periodo anomalo nel quale ci si è trovati con molto tempo a disposizione, abbia letto, non dico tanto, almeno due libri. Quanta si sia soffermata a leggere tutto un articolo, ad ascoltare il discorso di qualcuno in tv senza distrarsi, a motivare dentro di sé il proprio disagio e la frustrazione.

Eppure quaranta giorni, o cinquanta che siano, sono un bel numero di possibilità, un lasso di tempo in cui si potrebbe fare un bel bilancio di se stessi. Invece, sembrano troppi per la sussistenza, per l’inattività, per la solitudine, ma troppo pochi per capire se si stia usando il proprio tempo su questa terra anche per fare qualcosa in più.

E non parlo di cose esterne a noi, di cose comunque legate alla connessione con le altre persone; parlo di un lavoro personale di crescita per il quale un tempo sospeso è l’ideale.

Un tempo sospeso è un po’ come quando galleggi nell’acqua e senti il mare nelle orecchie, e un rumore attutito e lontano come di cose che non ti riguardano.

Stai lì con gli occhi al cielo, con il mondo che ti vive intorno ovattato, e il peso leggero del tuo corpo sostenuto dall’acqua. Ebbene, quel momento in cui hai un vero contatto con la tua poca pazienza, quella voglia di riemergere, di riacquisire il controllo, oppure quella di rimanere fermo ad ascoltare chi sei, dice come stai, qual è il tuo equilibrio.

E in questo galleggiare inevitabile, che non tiene in conto né il desiderio personale di distrarsi da se stessi né tantomeno quello di correre a pedalare per il mantenimento delle nostre necessità materiali, chi scappa e strepita continuamente, senza che questo abbia modo di cambiare quella condizione, dice molto sul senso che si attribuisce alla propria vita.

Se solo pensassimo che tanto di quello che facciamo ha lo scopo di distrarci da ciò che siamo; che tanto di ciò che sposiamo nella vita dipende da convinzioni che non ci appartengono, ci renderemmo conto di tutto il tempo che buttiamo a scalpitare per cose che non possiamo cambiare, e ad arrenderci, invece, davanti alla possibilità di crescere.

Ma è la distrazione ciò che si cerca maggiormente nella vita: impariamo sin da piccoli come ci si debba distrarre da ciò che siamo. E lo si fa essenzialmente per sopravvivere alle enormi lacune che abbiamo, perché colmarle è troppo impegnativo e il risultato è difficile da ostentare.

Patrizia Ciribè