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Nell’esercizio della mia prima attività mi capita spesso di trovarmi a tu per tu con l’approccio della gente nei confronti del denaro.

Occupandomi di beni patrimoniali, l’aspetto che più emerge dai discorsi che ruotano intorno alla componente economica delle famiglie è quella sorta di condizionamento morale che sovverte ogni valore noto.

Esattamente come per gli avvocati, io che, tra le altre cose, sono una mediatrice immobiliare mi trovo spesso davanti a strane forme di pudore, che innescano meccanismi quali la menzogna, o più semplicemente il silenzio sulla verità.

Analizzando la sfera economica, come uno degli elementi base dell’esistenza umana, è palese quanto la sua priorità acquisisca sempre maggiori necessità, legate, oltre a un fatto pratico e di sussistenza, anche una sorta di credibilità sociale.

E non lo dico volendo attribuire a questo aspetto comune una connotazione negativa, ma analizzando un comportamento vecchio quasi come il mondo.

Ma ciò che il benessere diffuso ha portato, quell’insieme, cioè, di possibilità che sembrano sempre più irrisorie ma che se ci guardiamo indietro sono, al contrario, sempre più elevate, è l’incapacità di sentirci svincolati da ciò che possediamo.

Ciò che possediamo, nell’opinione comune, in qualche modo ci definisce. È brutto dirlo, e personalmente cerco sempre di slegare me stessa da un giudizio sulle entrate economiche, così tanto altalenanti in questo momento storico. Ma la verità è che quasi mai veniamo giudicati o considerati al di là delle nostre possibilità patrimoniali.

Addirittura, nell’uso comune, sentirete attribuire valore a qualcuno enumerando i suoi successi materiali e, quasi mai, le sue virtù.

Ma non vorrei tanto perdermi nella retorica di certi predicozzi sui valori morali, quanto sottolineare la futilità di certi pudori.

Mi capita che le persone mentano sui loro beni; che nascondano pecche, pure se risolvibili, nonostante sappiano che emergeranno nelle sedi opportune. E mi capita di trovarmi innanzi a queste omissioni che, in verità, spesso, non sono legate alla volontà di trarne vantaggio, ma alla vergogna.

Mi viene sempre in mente “L’uomo nell’astuccio” di Checov, la malattia del suo protagonista che si ammala e muore d’ansia e di vergogna; oppure “Guerra e pace” di Tolstoj e il personaggio di Natalia Rostova la quale, anche lei, si ammala e quasi muore per amore e vergogna.

Nessun autore potrebbe oggi concepire un personaggio che si ammali perché imbarazzato per qualcosa che non sia legato al denaro.

Essere così cosciente di aver offeso a tal punto qualcuno da morirne! Quale scrittore partorirebbe oggi un personaggio simile? Nessuno che non abbia istinti autodistruttivi.

Ma la cosa che più mi atterrisce di queste persone è il motivo di quella vergogna.

Magari sfoderano tranquillamente atteggiamenti pregni di pregiudizi, spocchia, pochezza dei quali non solo non si schermiscono ma della cui gravità neppure si rendono conto; però, l’onta legata ai denari dovuti, delle fragilità legate ai propri averi, è qualcosa che, nel loro metro di giudizio, pregiudica l’onore.

In questo momento in cui nessuno si vergogna di niente; in cui ognuno difende se stesso persino davanti agli atteggiamenti più meschini; in cui i genitori difendono i loro figli bulli; in cui apertamente, e senza tema di essere emarginati, è possibile allontanare una persona per il colore della sua pelle; in cui non ci si sente le persone peggiori del mondo neppure se si strumentalizza la malattia di qualcuno, e il suo dolore, per una rivalsa personale, la vergogna non può che essere legata a quella sfera della vita che non necessita né di etica, né di integrità.

In sintesi, l’uomo o si vergogna delle cose sbagliate o non si vergogna affatto. Questo implica la perdita di qualunque contatto con il significato di civiltà.

 

Patrizia Ciribè