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Oggi, ospito con molto onore e gioia Salvatore Giordano che, con la Nulla die, è anche il mio editore. Quella che segue è un’intervista che siamo riusciti a realizzare fra i molti impegni che lo coinvolgono quotidianamente. Onde evitare di perdermi nei preamboli del discorso, parto dal principio con il raccontare qualcosa di lui. Subito dopo queste mie righe, potrete leggere le risposte alle domande che, con la mia solita curiosità, gli ho rivolto. In esse è contenuto molto dell’uomo, e un punto di vista interessante sull’Editoria e sulla letteratura attuale. Questo, oltre agli argomenti di interesse sociale che lo coinvolgono in quanto sociologo sempre attento all’evolversi della società in tutte le sue sfaccettature.

Salvatore Giordano, sociologo, è autore di varie opere e curatore di molte altre. Come autore spazia in diversi campi: narrativa, saggistica, letteratura per ragazzi. In qualità di editor si occupa di romanzi, racconti, teatro, poesia, saggistica e manualistica. Dice di sé “Ho sessant’anni (Ahimè!), vivo in Sicilia, parlo (leggo e scrivo) diverse lingue (ma ho difficoltà con l’inglese che parlo come un emigrante)”.

Parliamo un po’ di te partendo dalla tua occupazione principale: raccontami il tuo lavoro.

 Da 35 anni insegno le scienze sociali ai giovani. Un lavoro difficile e mal remunerato ma molto appagante.

Nel nostro Paese non c’è molta condivisione di saperi sociologici o antropologici ad esempio e nemmeno psicologici ed economici per la verità e la psicologia sociale e la social cognition sono quasi tabù. Una conoscenza che troppo a lungo è rimasta confinata all’interno delle minuscole conventicole di specialisti senza farsi patrimonio comune. E questo è un limite le cui ragioni affondano nelle storture del 900 quali, per ragioni diverse, l’idealismo e il fascismo. Durante il ventennio il regime perseguitava con olio di ricino, violenze, confino, deportazioni e carcere gli studiosi. Un altro motivo (attenzione: ho detto motivo, non causa) emerge dalla presunta egemonia della cosiddetta cultura cattolica.

Sono studi che fino a non molto tempo fa erano guardati con sospetto dalle istituzioni governative e che tuttora rimangono deficitari nella cultura “media” della popolazione nazionale adulta: è facile imbattersi in errori grossolani persino nei dizionari di italiano. Perché i compilatori di dizionari non differiscono molto dalla maggior parte delle persone colte in Italia. Persone che hanno spesso un’infarinatura di latino e storia dell’arte, o conoscono i rudimenti della fisica, ma ignorano nella maniera più assoluta i termini corretti dell’Abc delle questioni metodologiche ed epistemologiche delle scienze sociali.

Ecco il succo: da 35 anni a questa parte la mia attività di insegnamento consiste essenzialmente nel modificare con la giusta modestia e il necessario rigore scientifico questo stato di cose poco ragionevole.

 Sei anche un sociologo, un autore, un editor: quale di questi ruoli è quello che senti più tuo e perché?

Non saprei. Non faccio molta differenza tra quello di autore ed editor: in realtà un editor ha un ruolo determinante nella preparazione di un testo per la pubblicazione e quale che sia il genere o l’argomento del libro. Insomma, un editor è un autore dietro le quinte e il suo lavoro riesce tanto meglio quanto più riesce a stare in ombra, a mettere in risalto l’opera che gli è stata affidata senza oscurarne l’autore vero e proprio, vale a dire chi l’ha concepita. Vorrei aggiungere che, facendo l’editor, non credo di cessare mai di essere un sociologo o un autore.

Quale di queste passioni è nata prima: c’è un filo conduttore che le lega una all’altra?

 La lettura e la scrittura, come altre attività umane del resto, richiedono la stessa cosa che è necessaria per fare ricerca. La ricerca sociale, fra tutte le forme di ricerca scientifica, è la più complessa avendo a che fare con un “oggetto di studio” (le persone, i gruppi, le comunità, le istituzioni) capace di mentire o di bluffare e lasciarsi influenzare o di esercitare volontariamente condizionamenti sul ricercatore. Un oggetto di studio su cui non si possono compiere, per motivi etici e metodologici, le stesse operazioni ammesse in altri campi di osservazione o di sperimentazione: non che non vi siano limitazioni di carattere etico nelle altre scienze, ma quando si ha a che fare con persone, queste diventano più stringenti. E ciò vale anche per le metodologie e per la riflessione sui metodi.

Quello che ci vuole, e che lega l’una all’altra ciascuna di queste che chiami passioni, è un esercizio continuo, un incessante bisogno di verifiche e la certezza granitica che non vi sono certezze. O che ogni verità è provvisoria: è “vera fino a prova contraria”.

Parlando di editoria: quali sono, secondo te, le problematiche dell’editoria indipendente; sono più legate al riscontro di pubblico, alla distribuzione o al sistema editoriale generale?

La piccola editoria di qualità ha un limite insito nella sua caratteristica peculiare e che si ripercuote su tutta la filiera produttiva e distributiva: sconta il fatto di essere, per i contenuti e per i temi, di una qualità superiore al resto della produzione editoriale. E questo lo sanno (quasi) tutti: molti autori, gli editor, la maggior parte dei librai, i critici e la generalità del pubblico. Oltre, ovviamente, alle major del libro che non la rincorrono su questo terreno, limitandosi a competere su aspetti di natura economica e di marketing o di estetica esteriore.

E arriviamo al paradosso. Se un lettore esigente (spesso anche un autore) trova un certo numero di refusi o anche degli errori grossolani nel libro pubblicato da una major, è portato a indulgere: “la perfezione non è di questo mondo” lo giustifica. Trovando un solo refuso nel libro di un editore indipendente, invece, lo stesso lettore concluderà che “il testo è poco curato”… e, addirittura, che non può essere altrimenti perché “una piccola casa editrice non ha quei mezzi che certo non mancano a un grande editore”. In breve: una doppia morale che ipocritamente penalizza proprio chi lavora meglio e con più dedizione. Una doppia morale che fa il gioco di ciò che alcuni in buona fede vorrebbero combattere: la sciatteria, la massificazione, la mancanza di quella ricchezza che solo la biblio-diversità può garantire.

 Parlando di autori: oltre a quelle più scontate, legate a una buona scrittura, quali caratteristiche devono avere i manoscritti, che giungono alla tua attenzione, per essere presi in considerazione?

Per avere una chance, il manoscritto mi deve piacere e interessare. E perché mi piaccia dev’essere frutto di un lavoro onesto e originale. E, nel suo piccolo, aggiungere qualcosa che prima non c’era al patrimonio immateriale che è la conoscenza: senza ricorrere a tatticismi che offendano il lettore intelligente (cui ogni editore di qualità si rivolge) e senza plagi manifesti o celati nella piaggeria in forma di “omaggio” a questo o a quell’autore del passato e del presente.

Nessun manoscritto, per quanto accurato possa essere, è mai un libro compiuto quando un autore se ne distacca per sottoporlo al giudizio di un editore o di un editor: lo diventerà grazie alle successive lavorazioni. Se l’autore ha consapevolezza di ciò, la proposta merita di farsi strada verso la pubblicazione.

 In qualità di autore, a quale dei tuoi libri sei più legato e perché?

In realtà a tutti e a nessuno in particolare: ogni titolo risponde a un preciso bisogno di un determinato momento e, quando a distanza di tempo mi capita di rileggerne uno, trovo sempre qualcosa che avrei potuto scrivere o strutturare diversamente e che, se non lo avessi già pubblicato, rivedrei e rimaneggerei, anche in maniera radicale.

Non voglio però sottrarmi alla domanda e ti dirò che solo uno è davvero diverso da tutto il resto che ho scritto. E lo è per motivi strettamente legati alla sfera degli affetti più cari e all’incanto che suscita vedersi crescere accanto e insieme creature che si fanno grandi e trovano la propria strada; quasi la storia di un legame che ha un solo fine declinato in diverse forme: il distacco, la conquista dell’autonomia e l’affermazione di sé. Parlo del Pesce subaereo(http://nulladie.com/catalogo/160-salvatore-giordano-il-pesce-subaereo-illustrazioni-di-emanuele-cavarra-9788869150685.html) e il perché te lo lascio intuire dalla dedica:

Ad Alice Julie e a Massimiliano

con le scuse di papà.

 A tutti i bambini e ai giovani che vivono nel mondo

e non soltanto nella stanza dei giochi:

in quello stesso mondo dei grandi

che hanno il pieno diritto di giudicare

e il legittimo desiderio di cambiare.

 Agli adulti che non pretendono

di confinare i più piccoli

nell’angustia di un qualunque

paese dei balocchi.

 

E tu, Patrizia, quale preferisci fra quelli che hai letto?

Capovolgendo un attimo i ruoli, rispondo all’intervistato…succede anche questo!

Dei tuoi libri, quello che mi ha appassionato di più è Ustica. Devo dire che apprezzo sempre la tua scrittura, che ha un’insita sapienza, molto gratificante per chi ama la bella letteratura. Apprezzo il tuo linguaggio, che, pur essendo coevo, non si discosta mai da una forma anche estetica della lingua. È un requisito che cerco sempre negli autori attuali e che mi spinge frequentemente tra le pagine di quelli antichi. In Ustica ho trovato molte cose che me lo hanno reso caro, oltre alla dimensione del romanzo che è poi sempre quella che preferisco, ho trovato l’autore che non conoscevo, quello anche romantico e malinconico. Ho trovato lo scrittore siciliano, degno erede dei più classici e noti, il suo retaggio, la cultura antica di una terra pregna di una passione che implode in un riservato vivere. Mi ero ripromessa di scrivere una recensione, prometto che lo farò.

 Che ruolo occupa, nella tua vita, la scrittura?

Il posto che merita: quello della forma di espressione che padroneggio meglio.

 Tra le tue pubblicazioni ce ne sono due, in collaborazione con Antonella Santarelli, dedicate al NO MUOS, movimento del quale sei da anni attivista; vuoi spiegarci di cosa si tratta e quali sono, se ci sono, le conquiste fatte da un punto di vista pratico?

Il movimento No Muos è un laboratorio sociale e di democrazia: il suo principale merito è di aver reso popolare e trasversale l’opposizione alla guerra.

Sei molto attento all’utilizzo della lingua italiana, dedito alla sua espressione corretta, anche legata a un linguaggio in continua evoluzione. Come si è evoluto l’italiano negli ultimi quarant’anni se dovessi dare alcune indicazioni e norme editoriali agli aspiranti autori?

La lingua una volta la “facevano” gli autori colti. Oggi è giusto che chiunque la parli concorra alla sua vita.

La cosa paradossale, e stupenda, nella lingua letteraria è che talvolta i migliori contributi alla letteratura italiana siano venuti da autori che di norma non parlavano l’italiano nella vita di tutti i giorni se non come seconda lingua o  che hanno scritto in una lingua che non è proprio “l’italiano corretto”: pensa a Fo, a Camilleri, a Svevo. Senilità, ad esempio, se fosse un manoscritto alla ricerca di un editore, nelle mani di un editor di oggi verrebbe riscritto in diversi punti e adattato alla lingua corrente, mentre Svevo lo scrive come lo poteva scrivere uno che aveva imparato l’italiano dai libri, senza mai parlarlo correntemente, studiandolo come aveva studiato il francese. O l’inglese con un certo Joyce per insegnante.

In breve: le norme esistono (anche) per essere trasgredite. Vale nella vita di tutti i giorni e vale pure nella scrittura letteraria. Ma per trasgredire proficuamente una norma (o, anche, un complesso di norme) occorre conoscerla alla perfezione e avere bene in mente che cosa ci si propone di realizzare trasgredendola.

Mi esprimerò con un paragone: hai presente la norma “le donne non escono di casa”? Non credi che chi cominciò a trasgredirla, a costo di essere etichettata come poco di buono, non abbia fatto bene a farlo? Mi piace pensare che trasgredire quella norma prefigurasse anche con piena intenzione un mondo diverso e migliore di quello che la norma sanciva. E il rifiuto di rispettarla un atto rivoluzionario al quale dobbiamo molto della nostra vita di oggi.

Cosa proprio non ti piace nella scrittura e cosa, invece, ami moltissimo.

Apprezzo l’originalità. Disprezzo la mancanza di eleganza.

 Se dovessi dare un messaggio appendendo uno striscione alla finestra, cosa scriveresti?

Uno striscione al balcone non sempre ha bisogno di scritte. Anzi ne può fare del tutto a meno.

Pensa ai lenzuoli bianchi contro la mafia.

O a cosa ho fatto io quando sotto casa mia è passato il giro d’Italia dedicato a Israele: ho appeso al balcone una bandiera palestinese di circa 50 metri quadrati.

Ora sono in procinto di comprare alcune coperte termiche che appenderò al prossimo sequestro di naufraghi.

 In conclusione, cosa desideri per te stesso: c’è un traguardo che vorresti raggiungere, qualcosa che completerebbe la tua soddisfazione personale?

Non morire sotto un regime. E contribuire a superare la logica dell’economia di guerra tipica del turbocapitalismo di questi ultimi anni.

 

Bibliografia:

Più a sud, verso la Sicilia

Tota Nostra

Sizilianische Weltanschauungen

Lasciare libero lo scarrozzo

Ustica (2012, nuova edizione 2017)

Piazza No MUOS (con Antonella Santarelli)

MUOS. Ultimo atto (con Antonella Santarelli)

Il pesce subaereo, illustrato da Emanuele Cavarra

A Dio Piacendo. La secolarizzazione al tempo del fondamentalismo nel disincanto del mondo globalizzato: uno studio socio-psicologico sui processi culturali della modernizzazione nella vita quotidiana

Guazzabuglio di Stati Selvaggi

 

Patrizia Ciribè